Misoginia sistemica

Ma possiamo strapparci da questo sonnambulismo prendendone
coscienza e guardando al di là dell’hic et nunc.
Edgar Morin, Cambiamo strada.

A cura di: Antonella Ciocia.

Anche quest’anno il 25 novembre accende un faro su una questione grave di natura sociale, culturale ed educativa: il femminicidio. Moltissimi sono gli studi che inquadrano questo fenomeno, all’interno di un paradigma statistico, storico-evolutivo, giuridico, narrativo o psicologico; poco sono stati, invece, gli studi pluridisciplinari.

L’omicidio di genere è la punta estrema delle diverse forme di violenza che, tra l’altro, la situazione pandemica ha fatto emergere con maggior evidenza, qualora ce ne fosse stato bisogno.

Diverse sono state le leggi che sono intervenute, seppure tardivamente, a cercare di contrastare il fenomeno, ma ad oggi si può sostenere che incorriamo nell’«ottimismo normativo, vale a dire la tendenza a ritenere risolto un problema sociale quando viene sancita la sua definizione in un testo giuridico, formalmente logico e ineccepibile» (Ferrarotti 2022).

Che si tratti di ottimismo normativo è testimoniato dal fatto che il fenomeno registra numeri ragguardevoli e che le leggi, seppure buone, non solo non lo hanno eliminato, ma non si intravede neanche un trend in diminuzione. Le forme di violenza che si sommano agli omicidi sono diverse, tra queste quella sessuale è in forte aumento, a testimonianza di una persistente cultura machista.

I prodromi normativi riguardanti la parità di genere e la necessità di rimuovere gli ostacoli che ne impediscono l’affermazione si rintracciano negli articoli 3 e 117 della Costituzione italiana. In seguito diverse leggi, cancellate tardivamente, hanno contraddetto i due articoli richiamati. Si tratta di leggi dello Stato che riconoscono la sovranità dell’uomo sulla donna. È dal persistere dell’impronta misogina, istituzionale e normativa, che trova riscontro nell’abrogazione di leggi che si innesta la nostra riflessione. È opportuno porre l’accento sul fatto che un possibile superamento della differenza può attivarsi attraverso la relazione biunivoca tra leggi e cultura (Donno 2010), considerando che attualmente né l’uno né l’altro sembrano avere un ruolo guida nei processi di cambiamento.

Il percorso di emancipazione delle donne è iniziato alla fine degli anni sessanta, ma diversi sono gli inciampi che ha avuto e le caratteristiche di una società paternalistica e patriarcale che, infatti, lo hanno condizionato.

Storicamente le donne hanno conquistato sul campo il diritto di voto per l’impegno dimostrato durante la guerra. Seppure fu una conquista essenziale (Marshall 1950), non ha generato gli effetti sperati. La resistenza ad accogliere la partecipazione delle donne alla vita civile e politica ha creato un dis-allineamento, dovuto a un retaggio culturale della società che mantiene, nonostante il dettato Costituzionale, nel labirinto legislativo gli articoli art. 587 e 559 del codice Rocco che, seppure in modo diverso, legittimano l’omicidio di prossimità. Il processo evolutivo del riconoscimento dell’autodeterminazione della donna e della sua dignità come cittadina, storicamente stenta ad emanciparsi dalla rete simbolica del pensiero e dalla cultura prevalente. Non c’è stato, quindi, quel significativo cambio di passo che la Costituzione avrebbe dovuto avviare. La cui cogenza è annullata dalla natura conservatrice delle leggi.

Nel Codice Rocco, l’articolo 559 definiva la punibilità dell’adulterio della sola moglie. Solo dieci anni dopo con sentenza della Corte costituzionale (75/1968, art. 29) furono dichiarati illegittimi due commi dello stesso articolo che discriminavano tra uomo e donna in caso di tradimento. Controverso fu l’apparato normativo ma anche il progetto di revisione dell’ordinamento penale che con l’emanazione di sentenze che si contraddicevano[1], seppure si cominciava a respirare un nuovo clima[2], gli articoli penali del codice Rocco tardavano a essere abrogati.

Il diritto e la morale, ovvero norme scritte e non scritte, sono l’habitus entro cui si muove la differenza di genere e si legittima, con il diritto di onore. L’apparato normativo, autorizza e garantisce le dimensioni istituzionali – spaziale, temporale, relazionale – ma non è in grado di accompagnare l’Italia nei tempi di transizione tra la visione patriarcale/tradizionalista e quella emancipatoria.

La violenza sulle donne e, più in generale il non riconoscimento della parità di genere, è un fatto sociale per le implicazioni che il fenomeno ha nella regolazione, nella produzione e circolazione delle risorse materiali e, soprattutto, simboliche di cui la comunità ha bisogno per sopravvivere.

Nel dicembre del 1966 la stampa riporta il rifiuto del matrimonio riparatore, dopo aver subito violenza di Francesca (detta Franca) Viola:

non sono proprietà di nessuno, nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto, l’onore lo perde chi fa certe cose, non chi le subisce.

Negli anni che seguirono fu abolito il reato di adulterio (L. 126/1968 e 147/69), introdotto il divorzio in seguito a un referendum popolare (L. 898/1970) e riformato il diritto di famiglia (L. 151/1975).

Nell’aprile del 1977 un altro caso riportò alla cronaca il binomio violenza e nozze riparatrici. La denuncia fu fatta da una tredicenne Vita Pirrone, seguendo le orme di Franca Viola[3], ma solo dopo quattro anni furono abolite le disposizioni sul delitto d’onore (legge 442/1981), dopo settantasei anni dalla Costituzione. Alla fase delle garanzie formali seguirono, negli anni ottanta e inizio anni novanta diversi interventi per rafforzare il ruolo delle donne all’interno della vita sociale e politica italiana[4] e  promuovere la partecipazione al mercato del lavoro[5]. Solo nei primi anni del 2000 si arriverà al Testo coordinato del decreto contro la violenza di genere e codice rosso con il quale la «violenza di genere viene finalmente considerata come un’esecrabile violazione dei diritti umani, ancora trasversale alle diverse aree geografiche, alle classi sociali ed alla formazione culturale, che si manifesta attraverso una serie di condotte criminali che affondano le proprie radici nell’ignoranza, nella negazione della ragione, nella paura del confronto. Un fenomeno tragico che si nutre del dolore e della paura delle vittime, sovente indotte al silenzio dal timore di essere ulteriormente umiliate, isolate e abbandonate nelle situazioni di fragilità in cui vivono» (Ministero dell’Interno, 2021).

Schema 1. La parità di genere: evoluzione storica (per ingrandire cliccare sullo schema)

Il diritto vive nella Storia, ma la Storia è fatta di storie, di vite e di relazioni.

Le storie di violenza vanno raccolte, narrate, testimoniate. Da quelle storie si possono trarre insegnamenti ed elementi educativi utili per sollecitare quel cambiamento culturale che stenta ad affermarsi, ma non è unidirezionale e tantomeno veloce. Ha bisogno di radicarsi e di essere riconosciuto come patrimonio comune. Per questo sono necessarie pratiche educative che promuovano altri modelli rispetto a quelli generati sugli stereotipi tradizionali. Nel 2022 la questione del genere, è ancora lontana dall’essere affermata, anzi inerzie e resistenze culturali sembrano confermare il retrivo suggello patriarcale. Le libertà conquistate, non solo si mettono in discussione, ma sembra perdersi il terreno conquistato, come direbbe Morin, ovvero, che col tempo l’importanza del maggio del sessantotto si affievolisca ancora di più di quanto attualmente osserviamo. Si tratta di intervenire, attraverso l’arma della cultura e dell’educazione, sulle pieghe della discriminazione e dell’apatia politica (Zincone 1992). Anche quando i diritti sembravano acquisiti – come per il mercato del lavoro – salvo poi negarli nelle pratiche, alle donne è stato implicitamente chiesto di omologarsi al comportamento maschile – o ancora come direbbe Zincone (1992) spesso si tratta di corporativismo subordinato, in entrambi i casi non vi è riconoscimento della differenza di genere. Le parole della scrittrice cilena chiariscono il concetto dell’omologazione: «Abbiamo dovuto comportarci come loro, imparare le loro strategie e competere. […] ora non è più necessario e possiamo esercitare il potere della nostra condizione di donne. Come Eliza abbiamo conquistato la libertà e continuato a lottare per preservarla, accrescerla e far sì che tutte le donne possano goderne» (Allende, 2017, p. 18).

Un cambiamento di paradigma è un processo lungo, difficile, che si scontra con le enormi resistenze delle strutture e delle mentalità vigenti. Si realizza in un lungo lavoro storico che è al tempo stesso inconscio, subconscio e cosciente. La coscienza può contribuire al progredire del lavoro subconscio e inconscio. È ciò di cui crediamo e di cui vogliamo far parte (Morin 2020).

Con diversi gradi di consapevolezza e con vari livelli di responsabilità la parità di genere va riconosciuta e promossa:

  • all’interno dei nuclei per la distribuzione equa della cura della famiglia – la legge sui congedi parentali stenta a riconoscere alla paternità eguali obblighi della maternità –;
  • all’interno della scuola nel capovolgimento nella lingua italiana del maschile inclusivo – in quella cioè asimmetria semantica che si registra ancora oggi nei libri di scuola (Pantanella 2022). La storia, la scienza, la geografia, le arti etc., sembrano essere scritte solo dagli uomini, in questo la seconda agenzia di socializzazione la scuola, nei diversi ordini e gradi, potrebbe, anzi dovrebbe, assumere una grammatica comunicativa che educhi alla parità di genere, poiché «Parlare non è mai neutro» (Irigaray, 1991). «La lingua non è il riflesso diretto dei fatti reali, ma esprime la nostra visione dei fatti, inoltre, fissandosi in certe forme, in notevole misura condiziona e guida tale visione» (Sabatini, 1987:13);
  • nella comunità, nell’accogliere e non stigmatizzare la donna maltrattata, per isolare il maltrattante, quando soprattutto la donna ha il coraggio di denunciare, ma anche nel non ignorare i segnali di una violenza subita in silenzio, che spesso coinvolge anche i figli. L’obiettivo di uscire dalla diseguaglianza di genere è qualcosa di collettivo e plurale. La comunità deve accogliere, ascoltare perché molte donne subiscono violenza e sono invisibili ai servizi: non si espongono per paura. Paura di non avere la forza sufficiente per affrontare la procedura, la paura di non essere creduta, di essere ridicolizzata in un momento di estrema vulnerabilità, di essere cioè soggetta alla vittimizzazione secondaria a livello mediatico, giuridico e sociale.

Quando si arriva alla denuncia lo Stato ha già perso, la comunità ha perso.

Se però è necessario intervenire in modo preventivo attraverso l’educazione per estirpare le diverse manifestazioni di potere che nutrono la differenza di genere, è necessario anche intervenire sulla formazione dei professionisti, che a diverso titolo, supportano o affiancano la donna; è necessario anche liberare i servizi, spesso viziati dal pregiudizio sessista e da stereotipi che mettono in discussione la credibilità della vittima, spostando l’attenzione dal problema.

Bibliografia

Allende I. (2017), Donne dell’anima mia, Milano: Feltrinelli.

Donno M.G. (2010), Cittadinanza duale e democrazia paritaria, in Etiche e politiche di genere, Università Aldo Moro, Bari.

Ferrarotti F. (2022) Prefazione in Omizzolo M. (2022) Per motivi di giustizia, Busto Arsizio (Va): People.

Irigaray L. (1991) Parlare non è mai neutro, Roma: Editori Riuniti

Ministero dell’Interno, 2021 Il punto. La violenza contro le donne, in https://www.interno.gov.it/sites/default/files/2021-11/2021-_sac_brochure_violenza_sulle_donne.pdf

Morin E.(2020)  Cambiamo strada,  Raffaello Cortina Editore

Nussbaum M., (2000) Diventare persone. Donne e universalità dei diritti, Bologna: Il Mulino.

Pantanella A., (2022) Ben detto. Un’immersione nel modo in cui usiamo il linguaggio e una guida su come renderlo più consapevole e rispettoso, Formia (Lt): DFG Lab Zincone G., (1992) Da sudditi a cittadini. Le vie dello stato e le vie della società civile, Bologna: Il Mulino.


[1] La Corte Costituzionale sancì l’incostituzionalità del concubinato del marito (sentenze 126/1968 e 147/1969, ma nel 1961 si era già espressa in senso opposto). La prima sentenza era seguita, almeno temporalmente, al disegno di legge dell’on. Oronzo Reale, ministro Guardasigilli, che proponeva l’abrogazione delle speciali previsioni sulle lesioni e sull’omicidio a causa d’onore, proposte riprese pochi mesi dopo da un progetto di revisione dell’ordinamento penale affidato a Giuliano Vassalli. Il disegno di legge e la revisione dell’ordinamento rimasero, però, appese, per diverse ragioni ma anche, per il non gradimento da parte dell’opinione pubblica e ripresa  dal giurista Pietro Nuvolone, il quale sottolineò come non si potesse non tenerne conto.

[2] I mutamenti culturali sulla sessualità furono documentati dal cinema d’inchiesta a impronta antropologica di Pier Paolo Pasolini Comizi d’amore del 1964.

[3] L’8 marzo 2014 la Presidenza della Repubblica, viene nominata Grande Ufficiale per «il coraggioso gesto di rifiuto del matrimonio riparatore che ha segnato una tappa fondamentale nella storia dell’emancipazione delle donne nel nostro Paese».  Delitto d’onore e matrimonio riparatore: tra storia e diritto Vittoria Calabrò (Università degli Studi di Messina) Messina, 11 aprile 2019, pdf.

[4] Fu istituito il Comitato Nazionale di Parità presso il Ministero del Lavoro (1983) e a seguire la Commissione nazionale per la parità e le pari opportunità (1984), la Consigliera di Parità (1991).

[5] A questo proposito riteniamo utile sottolineare che lo Statuto del lavoratore (L. 300/1970) non si riferisce mai alle donne, seppure negli articoli 15 e 16 introducono il principio di non discriminazione nel rapporto di lavoro, sia esso individuale o collettivo