Pandemie e demografia: il quadro d’insieme

di Corrado Bonifazi.

La pandemia di covid-19, che ormai imperversa in tutto il mondo da più di un anno, ha costretto anche gli abitanti del mondo sviluppato a fare i conti con la fragilità della specie umana nel difendersi da nuove forme infettive. Questa volta, infatti, non si è riusciti a circoscrivere la diffusione del nuovo virus, come invece si era stati in grado di fare con la sars e con le influenze aviaria e suina. Del resto, la storia del genere umano è segnata dalla convivenza e, a volte, dal reciproco adattamento con i microorganismi patogeni. La crescita della popolazione mondiale, arrivata ormai a quasi 7,8 miliardi di individui, dimostra che da questo confronto siamo sinora usciti sostanzialmente vincenti, anche se spesso a prezzo di forti perdite. Uno degli effetti dell’attuale pandemia è stato sicuramente quello di riportare al centro dell’attenzione proprio il ruolo che hanno svolto le malattie infettive nello sviluppo delle popolazioni umane.

Rispetto alle altre specie animali, la nostra ha il vantaggio di poter contrastare le malattie, oltre che con le risposte biologiche e con la selezione genetica, anche con interventi di natura sociale e culturale. Un comportamento che, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, ha potuto contare su conoscenze sempre più ampie e solide, che hanno consentito di sconfiggere o ridurre fortemente, almeno nei paesi ricchi e sviluppati, l’impatto di malattie che hanno rappresentato per secoli dei veri e propri flagelli. Ma anche prima che la ricerca scientifica fosse in grado di fornire strumenti adeguati a contrastare le malattie infettive, le società umane avevano sviluppato interventi per cercare di limitarne la diffusione. Ad esempio, la pratica dell’inoculazione per immunizzare i bambini al vaiolo era diffusa in parti dell’Africa e nel mondo islamico molto prima che venisse introdotta in Europa nel corso del Settecento. Quarantene, cordoni sanitari e distanziamento sociale, tornati ad essere in pieno xxi secolo i principali mezzi a disposizione per arginare il covid-19, sono una delle classiche modalità di intervento di fronte alle epidemie e hanno trovato un ampio utilizzo da parte degli Stati italiani dalla metà del Trecento a tutto il Seicento per contrastare la diffusione della peste.

Non va poi sottovalutato il percorso di reciproco adattamento che spesso si sviluppa tra microorganismo patogeno e ospite. È grazie a questo processo che molte malattie infettive sono diventate tipiche dell’infanzia, colpendo solo i bambini ancora non immunizzati. Di conseguenza, una popolazione che ha già affrontato una malattia infettiva può avere dei vantaggi rispetto a un altro gruppo umano che ancora non è entrato in contatto con lo stesso agente patogeno. Il drammatico esito dell’incontro fra gli europei e i nativi americani ne è un tragico e significativo esempio: qualche millennio di stretto contatto con gli animali domestici aveva reso i nuovi arrivati molto meno esposti a tutta una serie di malattie che erano invece del tutto sconosciute alle popolazioni indigene, che ne furono infatti falcidiate.

Il vero cambio di passo nel rapporto con le malattie infettive si avviò già dalla metà del Settecento, ma prese vigore e si diffuse in larga parte dell’Europa nel corso dell’Ottocento, quando le crisi di mortalità di natura epidemica si ridussero in numero e intensità e diminuì anche l’impatto delle patologie di questo tipo a diffusione endemica. Secondo alcune stime, nel caso dell’Inghilterra e dell’Italia l’aumento di 27 e 32 anni nella speranza di vita registrato tra l’ultimo quarto dell’Ottocento e il 1951 è per circa il 70% attribuibile proprio al minore impatto di queste cause di morte[1]. Questo miglioramento nelle condizioni di sopravvivenza, noto come transizione epidemiologica o sanitaria, ha dato un contributo fondamentale alla straordinaria crescita della popolazione europea, passata dai 188 milioni di inizio Ottocento ai 404 del primo Novecento e ai 547 del 1950, nonostante i circa 60 milioni di europei emigrati verso gli altri continenti tra 1846 e 1940. Nel processo di controllo delle malattie infettive i progressi della medicina e della biologia hanno evidentemente avuto un ruolo essenziale: vaccinazioni, cure più efficaci, capacità di identificare i fattori patogeni e l’eziologia delle diverse malattie, miglioramento delle condizioni di vita, dell’igiene e dell’alimentazione sono tutti fattori che hanno concorso al raggiungimento di questi straordinari risultati.

Nonostante i continui ed eccezionali progressi della medicina e della biologia, tra gli studiosi del settore vi è sempre stata però piena consapevolezza che uno spillover, il passaggio cioè di un agente patogeno da un’altra specie, o mutazioni di microorganismi patogeni già esistenti potevano innescare una pandemia difficilmente controllabile e per la quale ci saremmo trovati, almeno in un momento iniziale, senza cure efficaci a disposizione. Del resto, in questi anni situazioni simili si sono verificate più volte, ma per nostra fortuna si sono rilevate circoscrivibili. Il covid-19, invece, ha mostrato tutta la nostra fragilità di fronte a un virus fortemente infettivo, che si trasmette direttamente da uomo a uomo con le stesse modalità di un comune raffreddore. Tale rischio, per altro, era ben presente a quanti si occupano di malattie infettive e alle stesse autorità sanitarie: nel 2015, ad esempio, la National Academies of Sciences, Engineering, and Medicine degli Stati Uniti ha organizzato un workshop proprio per discutere dei rischi di una pandemia globale e dei modi migliori per affrontarla. Nei lavori veniva evidenziato come «compared with other high profile threats to human and economic security such as war, terrorism, and financial crises, the world underinvests in and is underprepared for global disease outbreaks»[2]. Un’impreparazione di cui purtroppo stiamo ancora pagando le conseguenze.

Va poi considerato che, in quest’ultimo ventennio di globalizzazione, la probabilità che si possa verificare una zoonosi è aumentata in maniera notevolissima[3]. La popolazione mondiale ha, ad esempio, dimensioni 18 volte superiori a quelle che aveva nel 1340, quando arrivò la peste nera in Europa, e questo fattore, già di per sé, fa comprendere quanto sia cresciuta la possibilità che avvengano passaggi di microorganismi patogeni da altre specie a quella umana. Non solo, le attività economiche mondiali sono cresciute a un tasso molto più elevato della popolazione e questo ha determinato una pressione crescente sugli ambienti naturali, anche su quelli sinora meno esposti alle interazioni con gli esseri umani. Senza contare la crescita degli allevamenti intensivi, in cui il rischio di una zoonosi è all’ordine del giorno, come hanno mostrato l’influenza suina e quella aviaria. La crescita economica e la globalizzazione hanno, poi, comportato un aumento senza precedenti del commercio internazionale e degli spostamenti delle persone, il solo traffico aereo ha riguardato nel 2018 4,2 miliardi di passeggeri. Una cifra che da sola è sufficiente a spiegare la velocità di diffusione dell’attuale pandemia; del resto i virus «non corrono, non camminano, non nuotano, non strisciano. Si fanno dare un passaggio».[4] È in questo contesto di crescente pressione ambientale che si è sviluppata la pandemia di covid-19 e in cui si potrebbe anche presentare un microorganismo patogeno ancora più aggressivo e meno controllabile: il next big one potrebbe essere anche peggiore del virus sars-cov-2.

L’effetto demografico principale delle epidemie e delle pandemie è, ovviamente, quello sulla morbosità e sulla mortalità, ma le loro conseguenze investono anche gli altri aspetti della dinamica demografica, dalla fecondità alla nuzialità ai processi migratori. L’ampiezza delle conseguenze dipende naturalmente dalle dimensioni e dai vuoti che la crisi epidemica provoca all’interno della popolazione, ma se il primo impatto tende a rafforzare gli effetti negativi, riducendo anche la riproduzione della popolazione, l’esperienza passata mostra che, in aggregati demografici sufficientemente numerosi e vitali, passata la crisi tendono a mettersi in moto meccanismi di compensazione, attraverso una ripresa dei matrimoni, della natalità e più intense migrazioni. Quando questo processo non si è realizzato o lo ha fatto con particolare lentezza, la popolazione interessata ha conosciuto periodi anche lunghi di declino che, per i gruppi meno numerosi, ha a volte anche comportato la totale scomparsa.

Per quanto riguarda la pandemia di COVID-19 siamo purtroppo ancora lontani dal poter stilare un bilancio definitivo, anche se sono passati quasi 16 mesi dal giorno in cui la Cina segnalò all’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) il presentarsi di una forma di polmonite di cui si ignorava la causa. Nonostante sia bastata una settimana per individuare la causa della malattia e meno di un anno per mettere a punto diversi vaccini efficaci e avviare una campagna di vaccinazione mai vista in precedenza, la diffusione della pandemia è infatti ancora nella gran parte del mondo tutt’altro che sotto controllo. A livello mondiale, l’OMS al 14 aprile 2021 segnalava 136,7 milioni di casi di COVID-19, con 2,95 milioni di morti e 733 milioni di dosi di vaccino inoculate. Alla stessa data, il Dipartimento della Protezione Civile e il Commissario Straordinario per il COVID-19 registravano complessivamente in Italia 3,8 milioni di casi, 115 mila deceduti e 13,9 milioni di dosi vaccinali somministrate. Gli effetti del COVID hanno investito pesantemente anche i movimenti migratori e si stanno ormai manifestando anche sulla natalità. In definitiva, nonostante la nostra capacità di limitare e ridurre gli effetti delle malattie infettive sia aumentata in maniera straordinaria, neanche i paesi con la sanità migliore sono riusciti ad impedire che la pandemia si diffondesse e provocasse gravi danni. Purtroppo, l’esperienza del covid-19 ha posto con urgenza la necessità di considerare il rischio di una pandemia tra quelli più gravi che possono investire la comunità internazionale e gli Stati nazionali. Molto più gravi, per la vastità degli effetti medici e le ricadute economiche e sociali, della gran parte dei rischi che sinora sono stati posti in cima alle agende politiche.

Per approfondimenti:

C. BONIFAZI, “Popolazioni, epidemie e pandemie”, in Migrazioni di virus. Numeri e linguaggi, a cura di C. Bonifazi, M.E. Cadeddu, C. Marras, Collana PluriMi, vol. II, Cnr Edizioni, 2020, https://www.cnr.it/it/plurimi 


[1] G. Caselli, “Health transition and cause-specific mortality”, in R. Schofield, D. Reher, A. Bideau (eds.), The decline of mortality in Europe, Clarendon Press, Oxford, 1991, pp. 68-96.

[2] A. Gulland, “World invests too little and is underprepared for disease outbreaks, report warns”,British Medicine Journal, 352, 2016.

[3] A. Quammen, Spillover. L’evoluzione delle pandemie, Adelphi, Milano, 2014.

[4] Quammen 2014, p. 22.

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